Giulia è una cara amica, appassionata quanto me (se non di più) delle terre del Nord. È stata da poco alle isole Ebridi, in Scozia. Il racconto del suo viaggio mi aveva affascinata, così le ho chiesto se le andava di scriverlo. Mi ha risposto emozionata, con un cenno del capo e il suo sorriso luminoso.

Mi sono sempre domandata che cosa abbiano provato gli uomini che per primi hanno posato il loro piede su una terra inesplorata. Quale sensazione si provi a possedere il potere, il dono, di dare un nome agli oggetti, alle emozioni, alle immagini che una realtà vergine ci mette di fronte. Nelle Ebridi Esterne queste e altre mie domande hanno trovato risposta.

L’origine poetica del nome Ebridi viene fatta risalire al norreno havbredey, il cui significato è “isole al confine del mare”. Queste isole, poco conosciute, lontane dai flussi turistici principali, sono un vero tesoro nascosto in grado di riservare esperienze irripetibili ai temerari assetati di libertà disposti a sfidare il vento.

Sono approdata a Stornoway in una mite sera di maggio. Sul ponte del traghetto scalpitavo impaziente e il mio cuore gridava “terraaaa”. Mi sentivo Cristoforo Colombo. La costa della mia Isola che non c’è era costellata di piccole casette in pietra e calce bianca. Villaggi di pescatori colorati di avventura e storia, riscaldati dal fuoco di torba.

Stornoway, sulle isole Ebridi, in una mite sera di maggio.

Il mio obiettivo era il Nulla. Non avevo paura di incontrarlo ed ero nel posto giusto. Non temevo nemmeno le condizioni atmosferiche. Dopo un paio di mesi trascorsi in Scozia, l’acqua era ormai diventata la mia fida compagna, ogni goccia di pioggia era una carezza e provavo piacere nell’essere abbracciata dal soffio del vento. Queste latitudini d’altronde sono il regno delle nuvole, ed è affascinante osservarle mentre si rincorrono e cambiano forma. Quando esce il sole, poi, è un qualcosa di miracoloso, un evento fantastico, spesso banalizzato dai nostri occhi mediterranei. Uno squarcio tra le nubi e un raggio di luce onnipotente inquadra dettagli che un qualsiasi occhio umano avrebbe trascurato, preso dalla maestosità circostante.

Il richiamo della storia leggendaria del popolo scozzese mi ha condotta a Callanish. I menhir incastonati in questo remoto promontorio dell’isola costituiscono uno dei siti preistorici più suggestivi e fotografati al mondo. Assorbire di persona l’energia generata da questa composizione di pietre risalente a 5000 anni fa è stato per me un vero privilegio. Questi monoliti mi hanno catturata con il loro fascino magnetico e misterioso, finché ne ho scorto ogni dettaglio. Le venature delle pietre prendevano vita davanti ai miei occhi e io mi godevo lo spettacolo, immaginando l’imponenza degli uomini che le eressero.

Il richiamo della storia leggendaria del popolo scozzese conduce ai menhir di Callanish.

Spinta dal desiderio di vedere i confini di questo sogno, ho raggiunto poi il Butt of Lewis, il punto più a nord dell’isola di Lewis. Lo sguardo all’orizzonte: migliaia di chilometri separavano la mia ombra dalle coste dell’Islanda e del Canada. Una dolce desolazione cullava il faro che si erge all’estremità di questo capo, salvezza dei naviganti. Sono rimasta per qualche minuto immobile ad ascoltare lo stridio dei fulmari, uccelli d’alto mare che popolano la scogliera, a godermi la sensazione di sentirmi piccolissima, un puntino insignificante in questo grande, affollato pianeta. I miei piedi erano poggiati su una delle rocce più antiche della terra e riuscivo a percepirne la memoria. Mi domandavo come sia possibile che in un territorio così inospitale e inquietante risieda tanta meraviglia e accoglienza. Come sia possibile che, dove gli alberi non hanno la forza di mettere radici, ci si possa sentire così ancorati alla terra.

L’uomo è qui un essere raro e prezioso, e ogni incontro, per quanto infrequente, ha cambiato la mia vita. Volti scolpiti e scheletri irrigiditi dalla forza bruta della natura, sorretti da animi leggeri.

Butt of Lewis, il punto più a nord dell’isola di Lewis.

Vagando senza meta su spiagge incantate, calpestando tappeti spugnosi di torba intrisi di pioggia, ho capito che l’intuizione di Henry David Thoreau, per il quale «un uomo è ricco in proporzione al numero di cose di cui può fare a meno», non è poi tanto lontana dalla Verità.

L’incontro che ho vissuto con maggiore eccitazione è stato quello con l’oceano. Perché l’oceano non è il mare. L’oceano è un’infinità d’acqua e di insidie, di forza e libertà, da cui sono sempre stata attratta. Osservando l’oceano che accarezza e, a tratti, frusta le coste di queste isole, ho percepito la sua doppia natura: causa di terrore e fonte inesauribile di speranza. Una speranza che solo un uomo che lascia per sempre la propria terra senza sapere che cosa lo aspetti può provare. Avevo atteso per 30 anni l’oceano. Desideravo che il nostro incontro fosse perfetto, anche se sapevo di non poterlo pretendere. Un giorno di molti anni prima vidi su un giornale una foto di una spiaggia chiamata Luskentyre, situata nell’isola di Harris. Quel giorno decisi che lì sarebbe avvenuto il mio incontro con l’oceano.

La navetta mi ha lasciato in mezzo al nulla, senza ulteriori indicazioni. Ho chiesto a una gentile donna locale come raggiungere il mio sogno. Mi ha fornito tutte le indicazioni e mi ha lasciato proseguire da sola verso la mia meta. Una volta lontana l’ho sentita gridare: “Cerca il grande cavallo bianco selvaggio!”
“Chi?”
“Il grande cavallo bianco selvaggio!”
“… è reale?”
“A volte sì, a volte puoi solo immaginarlo.”

L’incontro vissuto con maggiore eccitazione sulle Isole Ebridi è stato quello con l’oceano.

Dubbiosa in merito alla sanità mentale della mia guida, ho proseguito in un vortice di emozioni e aspettative. Ho superato il cimitero, le dune e, all’improvviso, come un’allucinazione, mi è apparso lui, il grande cavallo bianco selvaggio! Libero, puro, maestoso, incontaminato, incorruttibile. Incredula, mi agitavo in cerca di testimoni in grado di confermare la mia visione, ma nessuna presenza si manifestava. Solo io, a ricoprire un minuscolo punto sul mappamondo dove era in corso un avvenimento magico. Solo io, a vivere un momento surreale e unico nella storia del mio universo. I nodi di una vita si sono sciolti e io mi sono resa conto di essere libera. Una sinfonia echeggiava nel cuore. I fiati suonati dal vento, gli archi dalle onde dell’oceano, che nel suo blu infinito incorniciava questo essere meraviglioso e perfetto. A volte ancora fatico a convincermi che tutto ciò che ho visto non sia stato un prodotto della mia fantasia, ma sia quanto di più reale e naturale abbia mai vissuto.

Queste isole, nella loro disumanità, nella loro verginità e purezza, mi hanno condotta più vicino che mai alla mia umanità.

[Foto e testo di Giulia Suman]