Ho sempre amato la Storia, conoscere il percorso degli uomini. Ma studiarla sui libri era frustrante per me che volevo toccare, vedere, sentire. Per questo ho scelto la Normandia, una terra che ha vissuto sulla propria pelle la tragedia che noi chiamiamo “seconda guerra mondiale”.

Volevo “sentire”, ma non nel senso comune di questo termine, volevo entrare in contatto con il luogo, far risuonare dentro di me l’eco della Storia che ha toccato in profondità quei luoghi e soprattutto quelle spiagge. Certo la Normandia è anche natura, cibo, bellissime città medievali, cattedrali in balia delle maree come Mont Saint-Michel, ma io ero lì per le spiagge: bellissime e profondissime, per chilometri seguono il profilo della Francia nord-occidentale, battuto dal vento e dal mare. Dal fatidico 6 giugno 1944 sono state ribattezzate con nomi in codice: Utah, Omaha, Sword, Gold, Juno.

Utah beach, una delle 5 spiagge della Normandia rinominate in codice in occasione dello "Sbarco".

Dopo un viaggio dall’aeroporto di Parigi lungo più di tre ore, finalmente vedo il mare. Sono a Utah, la prima delle cinque spiagge. Parcheggio l’auto e, superate le dune, lo sguardo si perde. Il vento mi scompiglia i capelli, i gabbiani giocano con le correnti; solo pochi turisti passeggiano, poi c’è solo silenzio. Di fronte a me l’azzurro di quel tratto di oceano che divide la Francia dall’Inghilterra, la Manica. È allora che mi chiedo che cosa devono aver provato i pochi ragazzi tedeschi messi a difesa del Vallo Atlantico quando, una grigia mattina di giugno, videro il vasto orizzonte coperto da 5000 navi: la più grande flotta di invasione che l’uomo abbia mai assemblato!

Alle mie spalle, verso l’interno, la prima piccola cittadina liberata dalle truppe aviotrasportate americane la notte precedente lo sbarco: Sainte-Mère-Église con il suo museo e la sua famosa chiesa, dove un paracadute impigliato sul tetto ancora sventola in ricordo del coraggio di chi quella notte si lanciò da centinaia di aerei in terra francese.

Il cimitero militare di Colleville-sur-Mer, in Normandia.

Alla mia destra, invece, in lontananza, Pointe du Hoc, il promontorio la cui cima fu raggiunta a fatica, con scale di corda e ramponi, e alla fine conquistata dai ranger americani. Ancora oggi è completamente craterizzata dai bombardamenti aerei e dalle batterie navali. Immagino il terrore provato da chi si trovava lì in quel momento: i tedeschi, certo dalla parte “sbagliata”, ma pur sempre ragazzi. Quando lo raggiungo, è tutto un sali scendi; ogni avvallamento corrisponde a un’esplosione. Oggi c’è silenzio, ma posso sentire l’eco di ciò che è stato e lasciare che un brivido mi corra lungo la schiena. Se ti avvicini al monumento posto al limite del promontorio, ti ritrovi a guardare il precipizio. 30 metri più sotto ci sono Utah a sinistra  e Omaha a destra.

Omaha, la spiaggia insanguinata. Così chiamata per i quasi 9000 ragazzi che persero la loro vita su quel tratto di costa di 8 chilometri, nel tentativo di percorrere una distanza di soli 300 metri. Incute timore e rispetto. La percorro per un lungo tratto, in silenzio, sentendo crescere gratitudine per quei ventenni sacrificati per porre fine a uno dei periodi più bui della storia d’Europa. Oggi riposano poco sopra la spiaggia, a Colleville-sur-Mer, in un cimitero militare: una foresta di croci bianche, grido silenzioso come monito di pace.

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