Piove ed è domenica ed è inizio febbraio, e così la ricetta per la malinconia invernale ha tutti gli ingredienti per il successo. Però le nuvole basse e i tappeti di foglie non hanno mai indotto desideri di spiagge caraibiche in me, piuttosto suscitato l’insoddisfazione per assenza di neve. Il problema vero non è comunque il meteo, quanto la familiarità dei luoghi, quel fenomeno per cui uscendo di casa incontri qualcuno che conosci e che ti vuole fare almeno un saluto. Oppure, mentre vai al supermercato per recuperare l’ingrediente magico del tuo pranzo domenicale (o anche il pranzo tutto intero), qualcuno ti vede da lontano e ti chiama al cellulare che così bevete un caffè insieme. Il mio problema è che la familiarità mi sa di trappola, mi fa venire voglia di strisciare contro i muri perché nessuno mi possa avvistare, riconoscere, chiamare per nome e imporre di uscire dall’anonimato. Persino la strada è prevedibile e, per quanto tu scelga di cambiare il percorso abituale, sai già dove andrai a finire.

Il mio problema è che la familiarità mi sa di trappola, mi fa venire voglia di strisciare contro i muri perché nessuno mi possa avvistare, riconoscere, chiamare per nome e imporre di uscire dall’anonimato.

Provo comunque a deviare dalla traiettoria casa-supermercato e opto per la Food Factory,  perché la “fabbrica di alimenti” mi sa di insolita sosta lungo il percorso banalmente abitudinario. Sedie e tavoli in legno chiaro arredano un piccolo ambiente con grandi vetrate, portatovaglioli intagliati nel compensato e contornati con un marrone cioccolato al latte mi danno la sensazione di lavoro artigianale. Nel menù trovo tutti i piatti che popolano l’immaginario della vita americana: pancakes, milk shake, hamburger, muffin, cheesecake e birra. Una food factory a Bergamo, terra di polenta, formaggi e salame, ti può illudere di essere in una cittadina del Kansas; è lo stile degli avventori, insieme alla loro parlata cantilenante, che toglie tutta la magia.

Mi basterebbe “quella libertà speciale che ha solo l’uomo di passaggio” di cui cantava Niccolò Fabi.

Oggi sarebbe un buon giorno per partire, per sconfinare. Potrei camminare per strada in totale anonimato, senza che le parole dei passanti mi invadano, perché, se non sono io che le ascolto con attenzione, loro, straniere, non si attaccano al mio udito. Mentre scrivo sul mio taccuino non mi dovrei chiedere se la ragazza del tavolo a fianco riesce a leggere la mia scrittura, e potrei arrischiarmi a scrivere frasi oscene a caratteri cubitali con l’aria di chi sta scrivendo un delicato sonetto. Vorrei essere altrove, libera dalla familiarità delle vie e delle persone per un giorno o forse due, o magari anche tre. Senza la necessità di un inizio tutto nuovo, di una promessa di una vita diversa, mi basterebbe “quella libertà speciale che ha solo l’uomo di passaggio” di cui cantava Niccolò Fabi.