Le nostre consulenti dei Viaggi al femminile hanno lanciato, durante il lockdown da emergenza COVID-19, una sfida di scrittura di viaggio alle viaggiatrici italiane: da 350 a 600 parole per raccontare le avventure vissute a casa o quelle dell’ultimo viaggio. “In palio” la pubblicazione dei tre testi più emozionanti nel blog di Racconti di Viaggio.

Di seguito il testo di Giulia Suman, il primo/secondo posto (per pari merito con Marinella Vacchina); al termine il link al testo di Marinella e a quello che si è aggiudicato il terzo posto.

 

Sono un animale selvatico, solo parzialmente addomesticato. La nostalgia della wilderness non mi viene solo in quarantena, ma anche dal lunedì al venerdì.

Ultimamente si è intensificata, credo fosse inevitabile. Complice la recente “cattività”, la sensibilità è più acuta, le emozioni si amplificano, i ricordi si aggrovigliano. Ascoltare questa voce è illuminante, ma non è di un mero viaggio interiore che vi sto per raccontare.

Mi aggiro per casa mia e… sembra un museo! Oggetti e foto mi ricordano luoghi meravigliosi, vicini e lontani, e le guide turistiche torturano i miei desideri. Eppure ciò che manca di più al mio spirito è dietro l’angolo, ne scorgo la sagoma incollandomi masochisticamente alla finestra: sono le “mie” montagne.

Quei massicci rocciosi che da quando ero in fasce si sforzano di rendermi una persona migliore, svolgendo un lavoro simile a quello dell’acqua sulla roccia, a volte lento e costante, altre volte violento e risolutivo. Mi accarezzano, mi sconquassano, mi erodono, mi smussano, mi ripuliscono dai detriti.

Le montagne mi danno del Tu e mi permettono di essere chi sono senza giudicarmi. Prendendo in prestito un’espressione di Massimo Carlotto, le definirei “la terra della mia anima”.

Vorrei quindi rendere omaggio a loro, che mi accolgono anche se sono spettinata, vestita male, stanca e rotta. A loro che con un’inaccessibile bellezza mi ricordano che la perfezione non appartiene agli esseri umani, ma agli umani è concesso l’estremo lusso di contemplarla.

E così si susseguono visioni e memorie di angoli di Paradiso. Scorgo il lago d’Antermoia, uno zaffiro incastonato nel letto di un ghiacciaio ormai morto, disseminato di massi erratici. Risalgo faticosamente i pendii e le rocce tetre del Similaun, tra le cui nevi ha riposato per migliaia di anni la mummia Ötzi. Chiudo gli occhi e respiro tra i boschi di abeti rossi, nobili soldati drammaticamente mutilati dalla tempesta Vaja. Scatto migliaia di fotografie al laghetto del Sorapis, con il suo colore allucinante a cui non riesco a credere neanche vedendolo con i miei occhi. Scendo a folli balzi i ghiaioni delle Odle, così ricchi di fossili che sembra di essere al mare da quante conchiglie riesco a trovare. Visito in punta di piedi il Parlamento delle marmotte nel Regno di Fanes, dove, complice il mese di agosto, dei simpatici roditori non vedo neppure l’ombra… saranno in ferie! Assisto all’alba dal Monte Mulaz, attorniata da anime silenziose con gli occhi lucidi, a loro agio in una naturale fragilità, disapprovata dalla vita quotidiana.

Mi manca il confronto con questa semplice, nuda meraviglia. Ho bisogno di rivivere il cosiddetto “sentimento della vetta”. Quel miscuglio di terrore e onnipotenza che si prova nel raggiungere una cima che da fondovalle sembra lontanissima, e invece la si ritrova lì, sotto ai propri piedi. Ogni singolo passo ha valore, e la conquista più importante è rendersi conto che la vetta rappresenta solo la metà del percorso. Bisogna tornare giù, consapevoli dei propri poteri sì, ma anche dei propri limiti, e non dimenticarsi da dove si è venuti.

Come disse l’arrampicatore Royal Robbins «scalare non serve a conquistare le montagne; le montagne restano immobili, siamo noi che dopo un’avventura non siamo più gli stessi». Mi auguro sinceramente che non saremo gli stessi, una volta superato questo Ottomila che stiamo attaccando.

Mi mancano le mie montagne, mi mancano terribilmente qui a Padova, a 12 metri sul livello del mare, ma mi rasserena pensare che almeno loro possano stare bene per un po’ senza di noi e che al prossimo incontro possano ritrovarci migliori.

 

QUI trovi il testo di Marinella Vacchina e QUI quello della terza classificata, Jessica Landoni.